There’s no place like home

Quando torno a Rutigliano per le feste comandate, c’è sempre qualcuno che mi chiede come mi trovi a Parma, tendenzialmente sempre guardandomi come una in licenza premio da Guantanamo.

Logicamente mi verrebbe da dire che una persona che sta male, non vivrebbe per quattordici anni in una stessa città, ma è spesso difficile far capire alle persone cosa voglia dire volersi un po’ di bene. E che si può scegliere dove stare bene perché è legittimo. E soprattutto che si può cambiare se non si sta bene.

Abbiamo radici, ma non siamo alberi.

Provo tenerezza per queste persone, la stessa che provo da sempre quando si mette in moto la macchina della gloria o del fango quando qualcuno fa una figata oppure una cazzata a Parma. Vorrei che mi chiedessero di spiegargli questo perché capirebbero che alla fine la latitudine spesso non cambia l’approccio se vivi in una piccola realtà.

Il parmigiano medio, nella mia personalissima opinione spesso avvallata dagli autoctoni, crede di vivere non nella Petit Paris, ma forse – chesso’ – a Rio de Janeiro con altri sei milioni e passa di abitanti. O in chissà quale altra megalopoli del pianeta Terra.

Sembra quindi essere all’oscuro -povera anima ingenua – del fatto che nella buona e, peggio ancora, nella cattiva sorte, in quattro minuti e ventisette secondi tutti in città saranno a conoscenza delle sue malefatte (Sette minuti e cinquantasette secondi se abiti a Berceto).

Ti serviranno dunque spalle forti per non subire il macigno del chiacchiericcio e venti anni di gavetta terronica ti torneranno assai utili, a dimostrazione del fatto  che la gavetta è salvifica e i giovani la devono fare, signora mia, non ci sta niente da fare.

Non credo molto a quelli che dicono di stare bene al mondo senza legami e senza radici di nessun tipo, o almeno penso che io sarei parecchio in affanno. Ho bisogno di persone e luoghi significativi a cui essere legata, di cui conoscere i limiti e i pregi per poterli accogliere e capire che invece certe sfaccettature posso solo guardarle, ma non le accetterò mai.

Parma spesso per me è stata come il fidanzato che guarda il culo alla tipa che passa o l’amica che arriva tardi al cinema quando sa che tu odi entrare a film iniziato.

Ti da’ fastidio, ma poi ti dici che ci sta. Che puoi far correre, che non devi sempre tenere il punto. Che puoi fare pace con quello che ti urta. Che dipende da te se non vuoi vivere costantemente come una che sta lì, quasi in prestito. Puoi guardare oltre.

Una casa non sara’ mai perfetta. Forse lo sarà quando riconoscerai i suoi limiti e i suoi pregi e saprai dare il giusto peso a entrambi, quando con un gioco di magia riusciranno a stare più o meno in equilibrio.

Parma in fondo è solo ‘una Rutigliano che ce l’ha fatta’, con più nebbia e più tortelli d’erbetta.

Me lo dico sempre e certi giorni c’ho proprio ragione.

La parrucchiera ucraina

Più o meno ogni sei settimane piego la testa all’indietro nel lavello della mia parrucchiera ucraina che mi copre i capelli bianchi con la tinta. Con il tempo siamo diventate confidenti al punto che mi sono fatta convincere a farmi fare la frangia e schiarire il mio colore naturale. Oserei dire che siamo diventate quasi complici perché mi sono affidata completamente. Ho mollato gli ormeggi davanti a quel modo particolare che ha di scegliere le parole e di rassicurarmi quando tentenno davanti alle novità.

Non mi sento una barca in balia di un armatore senza scrupoli, ma una barca che sfida i luoghi comuni della frivolezza delle chiacchiere da salone in nome di una fiducia e di una sincerità che sento vere.

Quell’appuntamento a cadenza ciclica si rivela sempre rigenerante e per due ore è come staccare le zavorre dal cesto di una mongolfiera che vuole solo volare nel blu. Potrebbe essere anche meglio di raccogliere le lacrime nel kleenex di uno psicoterapeuta o comprarsi un tacco dodici in un negozio del centro. Comunque, in tutti questi casi, credo siano sempre soldi ben investiti.

Ogni sei settimane mi sottopongo a un interrogatorio che mira a fare il punto della situazione della mia vita e – messa alle strette – rispondo come un soldatino alle domande che mi fa con piglio da Unione Sovietica. Difficile sfuggire ai suoi voli pindarici su “Come va a scuola? Come stanno i tuoi bambini? E il tirocinio? Stai studiando? Quando vai giù? Quando hai gli esami?” fatti con enfasi e trasporto, per poi planare, cambiando registro e scegliendo un’intonazione più greve, e chiedere: “Ma stai frequentando qualcuno?”

Io amo il suo coraggio. Io lo amo perché lei è cosciente che si sta ficcando in un casino grande, enorme come una casa, ma è stoica e imperturbabile e alla fine la bomba la sgancia sempre. Perché non parliamo mai di gossip? Perché non ci depriamiamo con la politica? Perché mi fai parlare di me?

Allora a quel punto io raccolgo tutta la mia pazienza e le mie energie e inizio a raccontare e a gesticolare sotto la mantella. E’ il segnale di via libera. Mollati gli ormeggi, si parte.

Posso persino alzarmi dalla poltrona per interpretare meglio le scene, che lei mi segue come un segugio, mai fiatando, non staccando mai le mani dalla mia testa e risistemandomi la mantella. Commenta con frasi lapidarie pronunciate senza connettivi, coglie tutte le sfumature, offre punti di vista alternativi, sottolinea le criticità. Il gol al novantesimo però è quando, puntualmente, nel silenzio impregnato di ammoniaca, fa schioccare la lingua contro il palato e dice: “Che coglione!”. Chè poi è l’unico commento che può fare – poverina – davanti all’escalation di descrizioni di comportamenti da casi umani che le propino.

Se mi dovessero chiedere di indicare una persona coraggiosa, io senza dubbio indicherei lei. Se invece mi dovessero chiedere di indicare un’immagine coraggiosa, io indicherei un tatuaggio con due A disegnate vicine quando ancora era troppo presto per capire che vicine lo sarebbero state per sempre. Alice però se lo sentiva e Alberto era spiazzato. Poteva andare via? Certo che avrebbe potuto. La conosceva da pochissimo e avrebbe avuto tutte le ragioni. Poteva fare come molti, poteva inventarsi sindromi, ferite mai sanate, biglietti di sola andata per l’Isola che non c’è, dire che doveva dare la formazione del Fantacalcio. Invece è rimasto, ha zavorrato la mongolfiera per poi andare a scoprire che forse il blu con lei era più bello. O forse per darsi una possibilità prima di cedere davanti a una paura facile.

Adesso ho due amici felici.

 

Quanto vuoto di coraggio che c’è. Vuoto di responsabilità nelle azioni che si compiono, di prese di posizione concrete, di equilibrio, di valore.

Quanto pieno di ego assetati in cerca di consenso, invece. Di parole inutili, di cinico compiacimento, di intrattenimento sciatto, di presunzione di poter trattare gli altri come macchine a noleggio di un parco auto molto affollato. Il pieno di solito è sempre troppo pieno di povertà.

Chè quella del conto corrente è oro a confronto.

 

Gli angoli adiacenti

D’inverno portava un cappotto rosso bellissimo che metteva in risalto ancora di più i suoi capelli lunghi nerissimi. Aveva un profumo buono e deciso, le mani curate e un’espressione sempre severa. La pelle liscia, nemmeno una ruga. Rideva raramente. Per quanto l’ho temuta in quei tre anni, solo adesso mi rendo conto che non ricordo più il suo nome di battesimo. Il cognome sì, ma ogni volta ho un sussulto nel petto. Ancora.

L’ho conosciuta arrivando dalle elementari con quella sicurezza degli arroganti di essere brava in tutte le materie perché mi piaceva studiare e mi applicavo. Non avevo bisogno che nessuno insistesse, mi avevano insegnato che era quello che dovevo fare. O forse era quello che si aspettavano da me. Se studi e ti applichi, i risultati che vuoi arrivano.

L’ho creduto fino a che mi sono scontrata con il suo muro di gomma. Tutti i pomeriggi mi applicavo con tutte le mie energie, ripetendo le definizioni a memoria, facendo gli esercizi. Se mi concentro, ricordo la copertina del libro e persino l’odore delle pagine.

A casa sapevo sempre tutto. L’indomani poi lei entrava in classe, salutava algida, si sedeva sistemando per bene la sua gonna a pieghe, scorreva l’elenco, chiamava il mio cognome e alla lavagna facevo scena muta.

Ho imparato la frustrazione e l’ansia di avere lo stomaco attorcigliato. E’ una sensazione che poi ho provato tutte le mattine di tutti i miei esami nei bagni all’università, ma non aveva più quella intensità. Spilli ovunque. Sarà che per fortuna ho imparato a gestirla. So che è come un’onda che dopo il picco massimo si placa. Basta aspettare e respirare. Sapevo che gli altri si aspettavano delle cose da me e io non potevo deluderli, ma con il tempo ho imparato che posso scegliere cosa fare e come sentirmi perché non sempre i risultati che vuoi arrivano.

Non so cosa sia successo esattamente ad un certo punto. Un click nel cervello.

I risultati sono arrivati con il tempo, ma l’angoscia era sempre lì quando lei c’era. Sono migliorata molto, ho guadagnato la sua stima, ma ho capito che i numeri non avrebbero fatto parte della mia vita. Che i calcoli in generale non fanno per me.

Ho ripensato a quel bellissimo cappotto rosso quando ieri, a quasi trentadue anni, mi sono resa conto che ricordavo ancora la definizione di angoli al vertice, angoli consecutivi e angoli adiacenti.

 

Tu non puoi capire

Quest’estate ero a cena fuori e, mentre addentavo i tentacoli di un polpo arrosto, una ragazza mi ha chiesto se c’è qualcosa che mi manca del posto in cui sono nata quando sono nel posto che mi ha accolta. Ho risposto solo di sì perché l’elenco delle cose che mi mancano sarebbe stato troppo lungo.

Il profumo di mia madre quando mi abbraccia su per le narici e poi fin dentro il cervello, i baci di mio padre di nascosto mentre dormo quando non so mai se sto sognando o è tutto vero, la luce del sole sul parquet della cucina quando poi mi sveglio per fare colazione.

Tra tutte le cose che mi mancano però so per certo che cosa invece non mi manca. Non mi manca dover avere a che fare con gente – per fortuna poca – per la quale avere un anulare occupato e altre nove dita che spingono un passeggino ha più dignità e più valore della mia vita, di cui spesso non sa nulla. E non chiede nulla.

Ti fermano, ti guardano, qualche convenevole che solitamente si limita a sapere come sta Pizzarotti e al considerare la città fredda e nebbiosa dove vivo come luogo della perversione stile Las Vegas solo perché è a nord di Roma. Al termine del teatrino, di solito poi arriva la mannaia: “E tu?”

Sarebbe bello se mi chiedessero se sono felice, che cosa faccio, se quello che faccio mi appaga invece che fare deduzioni o mettere a posto a caso pezzi di puzzle.

Risponderei che sono felice, che sono entusiasta, che ho dei desideri, che ho degli amici buffi, che penso contemporaneamente a tre viaggi che vorrei fare, che spesso sono stanca, che voglio sempre imparare, che a volte faccio una fatica incredibile, che ho capito di essere molto paziente, che non stacco mai, che anche quando sono in bici penso a come colorare quel disegno o a come incastrare quella riunione. Risponderei che ogni giorno è come essere sull’orlo di un precipizio o come una scarica di adrenalina perché quando entri a scuola non sai mai come andrà e cosa succederà e sei sempre in bilico.

I capricci, la nota con la penna rossa della maestra, i segreti, i sogni, il corso di cucina e quello di hip hop, la merenda dimenticata sotto il banco, Donnarumma e Higuain, i regali per Santa Lucia, la linea del venti, i musi lunghi, le vacanze a Maiorca e a Minorca, gli abbracci, le coccole cercate, i lutti.

Credo nella qualità del tempo che si trascorre con un bambino, a cui non frega niente se sai che giallo più rosso ti dà arancione. Credo nella cura e nell’impegno che sono alla base delle relazioni significative, quando non basta abbassarsi alla sua altezza, ma c’è bisogno di porsi in ascolto attento del suo sentire.

Penso questo, semplicemente. Eccedo? Sì, spesso. Sbaglio? Sì, forse.

E nonostante tutto è capitato che mi abbiano offeso professionalmente e soprattutto personalmente perché non sono madre e “allora tu non puoi capire”.

Che poi il fatto è che loro hanno figliato, punto. Mica hanno cancellato il debito del sud del mondo o trovato la cura definitiva contro il cancro. I più intelligenti capiranno che non si vuole sminuire la maternità in sé e io non sono Marco Damilano che ogni volta faceva lo spiegone a Gazebo.

“Tu non puoi capire” e forse al netto di tutto è vero, ma a un certo punto preferisco non capire. Un certo tipo di superiorità la lascio a quelle sedute sul trono col test di gravidanza positivo in mano.

Carote bollite

Ho pianto nei luoghi e nelle situazioni più impensabili.

Davanti alla tipa della copisteria dove avevo portato la tesi da stampare perché ero troppo stanca e stressata per scegliere il colore della copertina. E più lei mi diceva: ‘Dai tata, stai tranquilla, ci sei quasi!’, io piangevo ancora di più.

Ho pianto mentre imboccavo l’omogeneizzato a una neonata perchè mi avevano spezzato il cuore. Lei invece mi guardava con gli occhi spalancati dal seggiolone.

Ho pianto anche in gruppo, con una maestra per la morte del padre del preside perché sapevamo che lui era troppo anaffettivo per farlo. È stato un bel gesto quando ha preso i fazzolettini dalla borsa e ne ha dato uno a me e uno a lei, come fossimo due bimbette che si dividono la merenda.

 

Ieri ho pianto in treno su una schiscetta piena di carote bollite e con una forchetta lasciata a mezz’aria.

Non credevo di poter arrivare a tanto. E invece.

Ho pianto perché una donna che viaggiava con suo marito ha iniziato ad offendere un ragazzo che chiedeva l’elemosina con quei bigliettini che ti lasciano sui sedili o sul tavolino.

Ha continuato a dire per tutto il tempo che puzzava e che aveva la malaria.

Che schifo-che puzza-che odore-non toccare chè è malato.

Mentre ero nascosta tra i sedili di un regionale sudicio, riuscivo a concentrarmi solo sulla sua pelliccia che aveva però piegato a modino sul sedile accanto a lei.

 

C’erano anche dei broccoli nel mio pranzo, ma io non riuscivo a dire nulla. I pensieri si sono bloccati, come l’aria in gola e come la mia mano.

 

Che schifo-che puzza-che odore certa umanità.

Di ortodonzia e di esse mosce

 

Ho sempre avuto la esse moscia, sin da piccola.

Come ogni cosa, c’è sempre stato chi si divertiva (con poco, porello) a farmelo notare, facendomi dire “sasso” o stronzate simili e chi invece non c’ha fatto mai caso. A me piace perché è una cosa che mi accomuna a mio padre, quindi stacce.

A trent’anni suonati ho dovuto mettere l’apparecchio fisso ai denti e questo accentuava il mio difettuccio, però l’apparecchio è stato per gli undici mesi in cui l’ho dovuto portare, un modo per sentirmi vicina e simile ai miei bambini a scuola. Anche loro lo portano e ogni volta che lo notavano (aveva le stelline trasparenti e spesso anche il filo trasparente), era tutto un WOOOOOW-MAESTRA-HAI-L’APPARECCHIO-ANCHE-TU!

L’ho tolto poco tempo fa ed è stato una liberazione perché così posso finalmente riprendere a masticare le cicche, però ieri ho urtato il mento e ho pensato: “Cavoli, se avessi avuto ancora l’apparecchio, mi sarei distrutta la mandibola!”

Mi sono anche ricordata di un tipo con cui uscivo molto prima di avere l’apparecchio che fondamentalmente non voleva stare con me. Voleva prendere solo ciò che c’era di piacevole da una relazione tra adulti, un po’ come quando vai a mangiare al self service e poi non sparecchi. Io lo avevo capito, ma volevo fare come nel poker: volevo andare fino in fondo e vedere le sue carte, capire dove sarebbe arrivato. Ero abbastanza lucida perché quando a un uomo non interessi è abbastanza palese, ma mi diverte sempre un sacco vedere fino a che punto ogni santissima volta arriveranno a raschiare il fondo.

Quando la scusa non era il mio essere troppo grassa per i suoi standand da figa inversa al maschile, malcelati dietro un finto wannabe alternativo, il problema diventava la mia esse moscia. Si sbellicava dalle risate e con un modo di fare che mi urtava profondamente diceva che avevo la “zeppola” in bocca, come il piccolo Muccino.

Del resto, cosa potersi aspettare da uno che mangiava la quinoa?

 

Poi dicono che la scuola non serve a niente.

Ma non è mica vero.

Serve ad avere ricordi più nuovi e più belli.

Dell’ironia

Quando facevo gli scout c’erano tre ragazze in particolare molto brave nei canti.

A me piace molto cantare, ma non sono capace. Direi che il mio problema è quello di essere stonata però rischierei di aprire una diatriba con quelli che dicono che non esistono quelli stonati e non c’ho proprio voglia perché non è questo il punto. Semplicemente non ero brava come quelle ragazze e non volevo farle sfigurare, perciò arrivavo sulle note dove potevo, quelle molto basse, poi mi zittivo e le ammiravo in silenzio e in disparte.

Ho accettato di non essere capace di cantare.

L’ironia, o meglio l’autoironia, fa parte di me e mi aiuta a sopravvivere. Letteralmente. Sopravvivo grazie a lei e non mi sento migliore degli altri per questo.

L’ironia è il mio scudo quando mi sento impotente contro le brutture e la pochezza del mondo che mi circonda. Spesso è stata un amuleto per esorcizzare le paure, quello che non capisco o la fragilità che mi costa ammettere. Molto più spesso è stata un’arma per non soccombere a una sofferenza che mi toglieva il fiato o per non annaspare sotto il pelo dell’acqua dei miei limiti.

Scudo, amuleto, arma.

E’ stato così quando per dirmi che non piacevo, mi hanno mandato due mail. O quando sono stata un peso che teneva legati al passato. O quando ho ascoltato le paure più intime, scelto una macchina altrui e anche (quasi) il colore dei geranei da metter su un balcone non mio, ma non ero la donna giusta perché pesavo dieci chili in più.

Odio spiegare le battute perché credo che lo ‘spiegone’ annienti il guizzo della risata, il brillìo di una connessione sottile che si accende.

Mi urta dover spiegare che non critico né condanno chi mangia veg per reali problemi di allergie e affini se pubblico sui social una foto sfottò al supermercato. Mi urta spiegare che la critica a gente che non ha gusto nei vestiti non è esattamente fare body shaming, ma meriterebbe comunque una interrogazione parlamentare perché viviamo nel Paese di Alberta Ferretti e Valentino e se fosse per me avrei strappato già migliaia di passaporti. Non voglio convincere nessuno a mangiare carne, dunque non capisco quelli che vogliono convincermi a mangiare vegetariano e si sentono sempre toccati nell’orgoglio quando potrebbero mangiare ciò che vogliono, lasciando agli altri la libertà di fare lo stesso, omettendo commenti inaciditi e/o foto di agnellini a Pasqua.

Odio spiegare l’ironia perché credo che essa dica molto dell’intimo di una persona. Odio dunque spiegare, giustificare me stessa a qualcuno che non ha afferrato e che non è in sintonia con le corde di un luogo profondo e nascosto.

Su ogni cosa credo che l’ironia sia sinonimo di intelligenza, da entrambe le parti, cioè da quella di chi fa dell’ironia, mettendoci sè stesso, e da chi prova a interpretarla, magari mettendosi in ascolto sincero di ciò che l’altro vuole comunicarci.

Non avere senso dell’ironia e intelligenza non è una colpa, ma si farebbe molto meglio se lo si accettasse e con serenità si rimanesse sulle note, magari basse, in silenzio. Quelle che si è capaci di cantare.

La giardiniera

Il ricordo più affettuoso che ho legato ai nostri compleanni è quello dei sandwiches freschi di forno che farciva mia mamma.
Lo capivo che era un giorno speciale e così è sempre restato per me negli anni, forse per quella ritualità nei gesti, per quella importanza che attribuiva a quelle ore che si prendeva dal lavoro per preparare la festa.
Mi sentivo speciale quando capivo che non sarebbe tornata in ufficio e sarebbe stata tutta per noi per un pomeriggio intero. Intero.
Si toglieva le scarpe, si metteva il grembiule da cucina, prima il pranzo per tutti e poi i sandwiches per gli invitati del festeggiato.
Prima bisognava tagliarli tutti, poi quelli più affusolati e lunghi si farcivano con il prosciutto cotto e il formaggio svizzero. Per me era solo quello coi buchi. Rigorosamente una o due fette di cotto, poi sopra veniva adagiata una fetta di svizzero.
Quelli tondi venivano farciti con il tonno, i capperi, la maionese e la giardiniera, mescolati in una terrina. In casa mia la giardiniera era la grande ospite di tutti i 17 marzo, 28 settembre e 6 dicembre.
Il rituale prevedeva anche un particolare modo di conservarli nel tovagliolo, i cui lembi venivano bloccati con uno stuzzicadenti. Dopo venivano divisi in base alla farcitura in cestini di vimini bellissimi cosicché nessuno potesse sbagliarsi.
Penso che l’amore sia tutto qui, nella cura che si mette per fare bene qualcosa che renderà felice l’altro perché così si sentirà amato davvero.
L’augurio che posso farmi e che voglio farvi è quello di essere amati per quello che siete, oltre i difetti e le virtù.
Perché non è vero che si sta bene da soli: l’importanza e il valore della solitudine e del bastarsi vanno imparati e questo è sacrosanto.
Ma quando sei amato, in quelle mille e diverse forme che l’amore è, sei più bello, hai gli occhi belli, il cuore forte e l’anima leggera.

M’importa

La mattina sul presto e la sera sul tardi leggo dai libri come dovrebbe essere la scuola e passo le otto ore in mezzo in scuole di quasi tutti gli ordini e i gradi a capire che in realtà non è come vogliono spiegarmi nei libri.

Non leggo di fantascienza e lo so bene perché ho la fortuna di aver incontrato spesso persone illuminate che motivano, spronano e lavorano sodo. E’ stato ed è un grande insegnamento lavorare con loro.

Mentre sfreccio in bici da una scuola all’altra sento di vivere una possibilità meravigliosa che mi è stata data, ma lo faccio in apnea.

Letteralmente, e per due motivi.

Sia perché fisicamente spero a ogni metro di non finire stirata sotto un Range Rover bianco zarro che non mi dà la precedenza, sia perché metaforicamente quei tratti, mentre metto energia nelle pedalate, sono i contatti che ho con il paese reale, assai spesso fatto di brutture, di mediocrità e di pigrizia. Di ditoni tuttologi che pigiano riflessioni da bar su tastiere costose e che sanno solo accusare mai rivolgendosi verso i padroni.

Alla fine di quei tratti, che mi sembrano spesso interminabili, però c’è sempre il momento in cui mi fermo e respiro. Mi piego sulla rastrelliera e aggancio la catena. Entro, mi tolgo le cuffiette, poggio lo zaino e riprendo tutto il fiato che mi è mancato.

Sono dove le cose non vanno come dicono quelli che scrivono i libri, ma forse sono nell’unico posto dove tutti possono – se vogliono – cambiare le brutture e la mediocrità in qualcosa di incredibile. Questo però lo sanno tutti, non ho inventato nulla di eccezionale.

E allora credo che questo non sia più il tempo di fare spallucce perché riteniamo di essere esonerati poiché di mestiere progettiamo ponti o passiamo il codice a barre dei biscotti al lettore. Siamo tutti responsabili.

La bruttura che è riuscita a penetrare anche nei contesti educativi andrebbe arginata e rimandata indietro con una forza doppia, di cui solo la scuola può e deve esserne capace. Deve analizzarsi, ripensarsi e correggere il tiro. E’ solo da lì che si può ripartire.

Molto spesso mi sento sbagliata, non all’altezza, rifletto molto su quello che dovrei fare o dire. In questo caso no perché m’importa, mi sta a cuore. E come me, credo a molti.

Il bug nel sistema

Ogni mattina, quando mi sveglio, penso sempre: ” Meno male che non faccio uno di quei lavori dove mi devo vestire da pinguino, coi tailleur costosi e tacco 12 perché sarei spacciata!”

Ovvio che non mi presento in pigiama e nemmeno in tuta e, potendo muovermi solo in bicicletta, opto per un abbigliamento comodo, tipo maglioni e jeans. Raramente mi trucco, ma questo sempre e non solo al lavoro.

Capita che qualche volta osi un po’ di più e, incurante della tempera che i bambini puntualmente mi rovesceranno addosso, prendo dall’armadio un vestito e un cardigan. Ecco, i miei nanetti se ne accorgono, e non solo loro, perciò non voglio immaginare cosa pensino tutti dei miei maglioni e dei miei jeans.

Ma andiamo con ordine.

Capita anche che i bambini mi facciano alcuni regali perché in quasi due anni di gomito a gomito si sono affezionati, come del resto io a loro, io che faccio fortuitamente arrivare caramelle direttamente da Santa Lucia e dal suo asinello. Ho ricevuto cose come una collanina di pietre per il mio compleanno, una collana con palline di pasta pitturata con la tempera fucsia e rosa, un cerchietto di plastica verde fluo per i capelli e altre robe. Bellissime perché so che vengono dal cuore.

Capita che anche i genitori si affezionino e mi ringrazino sempre per quello che faccio così si fermano a chiacchierare e mi chiedono di me, di come sto, se scendo dai miei per Natale, oppure mi regalano dei gessetti per le attività o mi offrono un passaggio in auto se piove.

E’ capitato di recente con un bambino che io adoro perché ha la erre moscia come il topolino dello spot del Parmareggio e con il suo papà. Mi hanno dato un passaggio perché pioveva, palesemente allungando la loro strada di ritorno verso casa e spacciandolo per “Tanto siamo di strada! Non preoccuparti!”

E’ stato un bel gesto perché ho sentito che il mio lavoro, il mio sorriso e la mia pazienza, nonostante la stanchezza di certi giorni, vengono rispettati e apprezzati provando a dare qualcosa in cambio.

L’altro giorno ero truccata e avevo un vestito normale nero con pois bianchi e un cardigan di lana. I nanetti se ne sono accorti e hanno detto che ero molto bella ed elegante. Dopo è arrivato il papà (sui quaranta andanti) del topolino del Parmareggio (quello del passaggio) ed è stato tutto un “Veh, come è elegante la maestra oggi!”, “Chissà dove va la maestra stasera..” e “Forza, andiamo chè la maestra ha da fare e le facciamo fare tardi!”. Poi ha iniziato a coinvolgere anche i bambini in questa adulazione sfrontata e loro – galvanizzatissimi – dicevano che era vero, che ero molto bella, che il vestito era bello e che lo avevano già detto.

Ero imbarazzata (ma divertita) e quando ho chiuso la porta alle loro spalle ho dovuto perfino rassicurare che sarei rimasta a casa quando mi è stato detto: “Oggi non piove, ma non possiamo darti un passaggio perché di sicuro c’è qualcuno di meglio che ti passerà a prendere quando stacchi!”

Sulla strada in bici verso casa con il freddo sulla faccia ancora sorridente, ho pensato che di sicuro si tratterà di un bug tra i dieci e i quarant’anni nel “sistema uomo eterosessuale”, altrimenti non si spiega. Ma davvero.

In quel lasso di vita in cui l’uomo eterosessuale continua beatamente a mangiare, bere, dormire, istruirsi, spremersi i brufoli, guardare la serie A, trovarsi un lavoro e un bilocale a nessuno è dato sapere cosa accada. Si passa dunque da “Maestra sei bella ed elegante – sai che da grande voglio fare l’astronauta o forse il vigile del fuoco – ti piacciono i Pokemon?” al test delle intolleranze alle responsabilità e agli impegni da adulto, sostituiti da scuse panchinare di serie D, quelle che puzzano di paura da un chilometro.

E quando la risposta a un malessere molto grande sarebbe un po’ di psicoterapia che aiuti a sbrogliare nodi irrisolti, invece loro ti rispondono con una crisi di mezz’età da risolversi con un figlio in pronta consegna o con una biposto sportiva nuova fiammante e un corso di yoga tantrico. A trecento euro al mese.

Mi sa che domani vado in tuta a lavorare.